The BELLYCARNIVAL - Le origini del Carnevale tra maschere, danze e carri sacri alla dea Iside
Aggiornamento: 24 feb 2022

Quante di noi, da bambine, durante il periodo di Carnevale, si sono travestite da principesse d’Oriente o da odalische, sognando di essere trasportate in un mondo magico, magari su un tappeto volante, e di vivere una vita da fiaba?
Siamo sicuramente in tante, e forse l’attrazione che in età adulta ci ha condotto a praticare la danza orientale era inconsciamente presente già dall’infanzia. Perché ogni donna, in qualche periodo della sua vita, ha sentito il bisogno di sentirsi “altro” da ciò che è, di travestirsi e indossare una “maschera” attraverso cui esprimere i propri desideri più nascosti e alle volte più autentici.
Questa danza antica, più di altre, contiene dei codici di comunicazione, attraverso i quali la danzatrice esprime sé stessa agli altri, non solo in quanto artista, ma soprattutto in quanto donna. Lo fa con il corpo, con le mani, con lo sguardo. Quando noi danziamo la danza del ventre, proiettiamo all’esterno l’immagine della donna che vorremmo essere…(o almeno ci proviamo) e per questo ci sentiamo “donne davvero”, più sicure, più belle.
Veli colorati, gonne a ruota, cinte cariche di frange, strass e monetine, reggiseni gioiello, fiori, fiocchi, make-up sgargianti e a volte vere e proprie maschere fanno parte del gioco. E così, rendendo reale il mondo magico delle fiabe orientali, ci fanno tornare al nostro fanciullo interiore, che nonostante l’età dimora sempre dentro di noi e vuole tornare a giocare, facendolo però seriamente. Farsi belli, mascherarsi e adornarsi è un bisogno profondamente umano. Ed è antico quanto l’uomo. Anzi, in questo caso, quanto la donna.
L’uso della maschera ha un’origine che si perde nella notte dei tempi e si mescola tra leggenda e storia. Pensiamo alle maschere del teatro nell’Antica Grecia, usate dagli attori durante i drammi e le commedie per rappresentare le divinità elleniche prima e romane poi. L’aumentare dei personaggi da portare in scena obbligava gli attori ad indossare la maschera, permettendogli in tal modo di interpretare diversi ruoli. Ma il travestimento era doppiamente necessario, perchè l’attore riportava spesso dialoghi salaci, blasfemi e a volte sovversivi. Aveva quindi bisogno di rendersi irriconoscibile se le sue provocazioni rischiavano di andare oltre la soglia dell’accettabile. La maschera possedeva quindi un grande potere liberatorio.
Ma il teatro, attività che nella Grecia classica ricopriva un profondo valore educativo e morale, non era l’unico ambito in cui si faceva uso di maschere. Durante le feste dionisiache del periodo classico, poi confluite nei Saturnali della Roma antica, era lecito lasciarsi andare, liberarsi da obblighi e impegni, per dedicarsi allo scherzo e al gioco. Erano giorni in cui si annullavano le gerarchie e le differenze sociali, il ricco e il povero erano finalmente allo stesso livello, si suonava, si danzava e s’indossavano maschere per essere irriconoscibili. L’equilibrio costituito veniva rovesciato lasciando spazio a scherzi e mascheramenti che simboleggiavano la supremazia del caos sull’ordine come rinnovamento simbolico della società. Proprio da queste feste pagane mediterranee avrebbe avuto origine il Carnevale cristiano, esattamente come tante altre festività religiose del nostro calendario.
Nel mondo orientale invece le celebrazioni che consentivano l’uso della maschera erano perlopiù di natura religiosa, e la danza vi aveva un grande significato etico e morale. Secondo quanto scrive lo scrittore latino Lucio Apuleio nelle Metamorfosi (libro XI), il "travestimento" risalirebbe ad una festa in onore della dea egizia Iside (guarda caso la dea da sempre correlata alla danza del ventre…), chiamata Navigium Isidis, una processione religiosa a seguito di una nave a ruote (il cui nome latino carrus navalis si contrarrebbe facilmente in “Carnevale”), nella quale erano allegoricamente rappresentate le forze del caos che contrastavano la creazione dell’universo. Durante tale festa erano presenti numerosi cortei oltre che carri mascherati, in cui la maschera assumeva una funzione apotropaica per allontanare gli spiriti maligni.
Tale festa passò nel mondo romano e da qui si diffuse nel Mediterraneo, radicandosi quindi nell’Europa cristiana, dove, dal Medioevo in poi, divenne la più importante celebrazione laica, data il ruolo centrale delle festività religiose principali (Pasqua, Natale, Epifania, Pentecoste e Ascensione) fortemente legate alle cerimonie liturgiche. Era chiamata “fasnachat” o “fesenach”, festa di pazzia, con riferimento agli scherzi e agli eccessi tollerati in questo periodo, poi reinterpretata col termine latino Carnem levare, ovvero “carne levare“, cioè togliere la carne, con riferimento all’usanza del martedì grasso di finire la carne in dispensa dato che nel periodo di Quaresima prima di Pasqua non se ne poteva mangiare.
Non vi sembra alquanto curiosa la trasformazione etimologica del nome di questa festa pagana da “carrus navalis” a “carnem levare” in una sorta di damnatio memoriae ad opera della Chiesa??
Non è infatti un caso che la spontaneità e il desiderio di divertimento del Carnevale si accrebbero tra XVI e XVII secolo, in epoca controriformistica, quando la censura teatrale da parte della Chiesa divenne assai restrittiva, esercitando un forte controllo su compagnie e spettacoli licenziosi o contrari alla morale. Ciò provocò l’esplosione del Carnevale come momento anticonvenzionale, in cui tutto era lecito. Ecco che attraverso l’uso del travestimento e della maschera, nella Venezia dal XVIII secolo in poi, i ruoli sociali si rovesciano: il nobile può mescolarsi al plebeo, scendere in strada e comportarsi come più gli piace, le donne possono uscire liberamente senza compromettersi, gli amanti possono incontrarsi celando la propria identità, i ladri possono mescolarsi nel marasma per compiere qualche malefatta. Insomma il Carnevale diventa la festa popolare per eccellenza, moltitudine di colori, musica e danze.
Lo spirito della festa è quello di livellare l'ordine delle cose, ribaltare la realtà con la fantasia e travestirsi da ciò che non si è… Esattamente quello che facciamo noi bellydancers durante le nostre esibizioni di danza del ventre: saliamo su un palco che ci separa dalla realtà quotidiana, così essenziale e frenetica da lasciare poco spazio a fronzoli e lustrini, e travestite da principesse velate, danzatrici zingare o guerriere armate di spade, con i nostri tessuti, monili e ornamenti preziosi rovesciamo il ruolo convenzionale e formale che la società ci ha attribuito in quanto donne. In queste vesti ci sentiamo affascinanti e ammirate. Ci piacciamo, anche se non siamo perfette. Possiamo trasgredire la regola, senza sentirci giudicate. E ci innamoriamo della nostra maschera, che forse però è proprio la parte più autentica di noi stesse. Poco importa se una volta scese dal palco, o uscite dalla lezione di danza, l’incantesimo finisce. L’importante è stato esprimere con gioia e libertà, anche solo per qualche minuto, ciò che realmente siamo.
Mi torna in mente, mentre scrivo, il dolcissimo ricordo di Paola, la mia prima Maestra di danza del ventre, che invitava noi allieve a partecipare a quello che non era un semplice saggio, ma il Matto di fine anno. Così lei lo chiamava. La nostra Festa dei folli, in cui tutto poteva accadere. D’altronde, come dice un antico proverbio legato al Carnevale, "una volta l'anno è lecito impazzire". E noi lo facciamo così...danzando!
Buon Carnevale!
Bibliografia:
- M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, 1995
- M. Strova, Il linguaggio segreto della danza del ventre, Macro Edizioni, 2005
- AA. VV. Feste, danze e furori. Dal corteo dionisiaco al Carnevale, Gangemi Editore, 2012
- G.L. Corinto, Che cosa centra Iside col Carnevale?, Tuttomondo, 2018
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